Negli anni Novanta si diffuse una particolare catena di Sant’Antonio che prevedeva il passaparola di una pianta egiziana, una pratica che oggi si rivela una curiosa anticipazione della bevanda salutare conosciuta come kombucha. Questo articolo riecheggia i ricordi di un’epoca in cui molte persone coltivavano inconsapevolmente una delle più recenti mode nel mondo delle bevande fermentate, senza averne idea.
Per chi è cresciuto negli anni Ottanta e Novanta, ricordi di una misteriosa pianta egiziana portafortuna affiorano facilmente. La pratica, che sembrava un gioco innocente, si svolgeva nei cortili delle scuole e tra le aule dei ragazzi delle medie. Quella pianta, che molti definivano alga, era in realtà un organismo vivente che si proliferava in un barattolo non proprio attraente, ma ricco di fascino per i giovani. A dare origine a questa catena era l’idea che, irrorando l’organismo in un mix di tè e zucchero, sarebbero nati “figli” da regalare.
Il ricordo di questa pianta si mescola con il suono dei compagni che parlano di come ognuno ha presentato il proprio barattolo a casa, rendendosi parte di un rito che univa i ragazzi in un’esperienza collettiva. La cultura popolare dell’epoca generava tendenze che si diffondevano rapidamente. Nonostante l’apparente assurdità, questa pratica si è trasformata in una sorta di status symbol tra i coetanei, ponendo la pianta al centro di conversazioni e legami.
Ad oggi, un odore pungente, non sempre gradevole, può risvegliare i ricordi legati a questa pianta gelatinosa, avvolta in un liquido scuro e misterioso. Questo aspetto sensoriale affonda le radici in un periodo che molti hanno dimenticato, ma che oggi, con la riscoperta del kombucha, trova nuova vita. Riconnettersi con questi ricordi può rivelarsi un viaggio affascinante attraverso la memoria collettiva di un’intera generazione.
Recentemente, l’incontro casuale con il processo di preparazione del kombucha ha portato alla luce la verità dietro la pianta egiziana. Lo “scoby“, acronimo di Symbiotic Culture of Bacteria and Yeast, e la sua funzione sono i veri protagonisti di questa storia. Il “blob” che tanti di noi un tempo trattavano come un oggetto straniero era in realtà l’elemento essenziale per la produzione di questa bevanda fermentata, oggi molto ricercata e apprezzata per i suoi benefici sulla salute.
La scoperta che molti di noi, negli anni Novanta, stessero inconsapevolmente preparando kombucha ha suscitato un certo stupore. Ogni volta che si metteva in funzione la pianta, si dava vita a una cultura capace di allettare palati e generare entusiasmo. Ma all’epoca eravamo ignari: il liquido marrone scuro veniva semplicemente cambiato, senza considerare le potenzialità offerte da quello che ora sappiamo essere un vero e proprio elisir di benessere.
Nella corsa a produrre questa bevanda fermentata, ci si dimenticava spesso dell’effettiva utilità dell’scoby. I “figli” venivano regalati, in onore di una tradizione che oggi appare come un preambolo a quello che è diventato un vero e proprio culto del kombucha. Mentre molti oggi spendono somme considerevoli per procurarsi il kombucha, nel passato si ricreava la magia del fai-da-te, anche se nel modo più innocente possibile: gli scarti e i liquidi venivano gestiti senza alcuna coscienza del loro valore.
Allo stesso modo, i litri e litri di kombucha finiti nel water ci pongono oggi interrogativi sul nostro rapporto con la cultura alimentare e le tradizioni passate. Quello che ieri sembrava solo un gioco, oggi ci invita a riflettere su come certe pratiche possano cadere nel dimenticatoio ma, grazie alla ricerca e a un rinnovato interesse per il cibo fermentato, si possono recuperare e rielaborare in chiave moderna per il benessere della nostra società.
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