Il mondo della ristorazione fine dining, con i suoi menù elaborati e atmosfere opulente, suscita sempre dibattiti accesi. Mentre molti professionisti del settore si precipitano a vivere esperienze culinarie stellate, c’è chi, come un’autrice del Gambero Rosso, si trova a non apprezzare questo tipo di cucina. Le sue riflessioni toccano aspetti rilevanti sulle preferenze culinarie personali e sull’industria della ristorazione, portando alla luce una crisi strutturale che sta attraversando il settore.
L’autrice inizia raccontando la sua relazione complicata con i ristoranti fine dining. Non si è mai sentita a suo agio in questo ambiente, al punto che nei suoi primi giorni in redazione ha persino mentito riguardo a visite in locali stellati, per non sentirsi esclusa dalle conversazioni. Tuttavia, con il passare del tempo, ha acquisito sicurezza e consapevolezza delle proprie preferenze. La ristorazione gourmet, contrariamente a quanto si possa pensare, non rappresenta la sua idea di piacere culinario.
Un aspetto significativo del suo disinteresse per il fine dining è il numero elevato di portate nei menù degustazione. L’autrice sostiene di riuscire a gestire al massimo sei portate; oltre questo limite, la sua attenzione e il suo appetito diminuiscono notevolmente. In un evento recente, ha partecipato a una cena di 14 portate, ma delle diverse offerte ricorda solo alcune. La frustrazione di dover lasciare porzioni intatte la tormenta ancora oggi, evidenziando un elemento chiave: il fine dining può trasformarsi in un’esperienza che non valorizza la convivialità e l’apprezzamento del cibo.
Quando si parla di esperienze culinarie, l’aspetto economico gioca un ruolo cruciale. L’autrice ammette di avere una certa simmetria di spesa rispetto ai suoi coetanei, sottolineando che, per lei, investire in ristoranti di alta classe è una scelta scomoda. Anche se la qualità del cibo è riconosciuta, il costo associato a una cena in un ristorante stellato risulta spesso elevato. Ciò che per uno può essere un investimento utile può risultare un eccesso per un altro; nonostante il valore percepito nella ristorazione premium, questo rimane un aspetto soggettivo.
Dalla sua esperienza, l’autrice sottolinea che molti appassionati del fine dining talvolta trascurano la bellezza di un pasto semplice, scambiando l’idea del “collezionismo” di cene gourmet con una gastronomia più accessibile. È importante considerare che non ci sono esperienze di ristorazione più o meno valide: ogni pasto ha la propria dignità a patto che venga gustato in buona compagnia. La cultura gastronomica è vastissima e deve includere anche quei piatti semplici e regionali che raccontano una storia affascinante, lontana dalla pretesa di certi locali rinomati.
L’autrice evoca il suo amore per la cucina, ben radicato nella semplicità delle ricette domestiche, piuttosto che nei grandi ristoranti. La sua inclinazione verso la creazione di piatti semplici, come la pasta fatta in casa, riflette una connessione profonda con le proprie origini culinarie. Ogni piatto preparato rappresenta un modo per onorare il cibo e le tradizioni, e questo legame non viene necessariamente soddisfatto dalle esperienze fine dining, che a volte possono essere percepite come effimere o lontane dalla realtà quotidiana.
In prima persona, l’autrice analizza il motivo del suo disamore per il fine dining con una metafora sui rapporti personali. Non esiste una spiegazione razionale per cui alcune cose attraggano e altre respingano. La preferenza per piatti tradizionali e preparazioni ricche di storie è un aspetto della sua individualità che non è in discussione. La realtà è che il fine dining non riesce a riflettere la sua essenza, così come una coppia di stili di vita diversi non si sposeranno mai.
Questa riflessione evidenzia la complessità dei gusti alimentari e nazionali, chiarendo che l’amore per il cibo non è circoscritto a categorie specifiche. L’importanza di una buona cucina è universale, e la bellezza delle persone che la preparano e la condividono è ciò che riempie i cuori, non solo le tavole.
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